di Ivan Vaghi
Qualcuno prima o poi farà il
riassunto e saranno molte le cose che non torneranno. Perché incomprensibili e
perché nessuno le vorrà più indietro (prodigi dei giochi di parole). Quando si
vive un’epoca felice la gente se ne accorge, ne ha consapevolezza, facile dire
che non è il nostro caso, in quest’esordio di secolo.
Un tizio qualche annetto fa,
circa centossessanta a dirla tutta, aveva messo in guardia dai pericoli del
capitalismo industriale, aveva parlato di inevitabili crisi ricorrenti, aveva
teorizzato i rischi della globalizzazione (ebbene sì, centossessanta anni fa),
e tante altre cose debitamente ignorate. La volontà di tutti, dicevano e dicono
ancora oggi gli ignoratori, è lo sviluppo economico, che ovviamente non avrà
mai fine. Ci saranno sempre nuovi mercati da spremere a costo di andare sulla
Luna. Il PIL è e sarà sempre la nostra religione, e Henry Ford è il suo
profeta. Qualcun altro, ma qui bisogna andare indietro nel tempo davvero,
diciamo sei secoli, diceva che il destino degli uomini è sottoposto
inevitabilmente al rischio di rovesci della sorte, e quindi il miglior stato
possibile è quello che prevede la partecipazione di più gente possibile perché
così la sfiga sarà costretta a sparare nel mucchio. Ci sarà sicuramente qualche
vittima ma lo stato vivrà. Che poi è la logica del branco, ci si difende gli
uni con gli altri, si vive la stessa vita, ognuno si fa carico della propria
quota di rischio e di responsabilità, ognuno è legato agli altri e ognuno ha a
cuore il destino degli altri quando va bene e anche quando va male, e quando va
male ci sono le risorse collettive per andare avanti lo stesso, più preparati
di prima.
L’umanità di fine secolo si
guarderà indietro e cercherà di mettere insieme i dettagli di quest’epoca, che
aveva scelto l’eterno presente come regola di vita, che aveva dimenticato come
si fa a programmare, che aveva rinunciato a immaginarsi come comunità umana. Insomma,
un bambino che non voleva crescere e che voleva continuare a giocare a mosca
cieca a tutti i costi. L’umanità di fine secolo non si capaciterà di come non
abbiamo messo in conto cose così semplici, che cioè le risorse non sono eterne,
che le possibilità di smaltimento dei rifiuti non sono infinite, che la
felicità non è direttamente proporzionale al prodotto interno lordo e un sacco
di altre cose. Certo per loro sarà facile perché saranno dei cyborg. Il
darwinismo infatti colpisce anche le connessioni neurali, quelle che non
vengono usate si “spengono”, una specie di stand-by energetico che alla lunga
diventa sconnessione definitiva, un’estinzione di fatto. È già iniziato il
processo di spostamento di alcune nostre facoltà neuronali, trasferite ai
computer e alla rete, ed è un processo che sarà sempre più evidente. Il che vuol
dire che prima o poi alcune (molte?) delle nostre reti neurali biologiche
verranno spente e sostituite dalle reti di connessione digitale, quindi le
nostre facoltà mentali saranno in parte organiche e in parte artificiali.
Cyborg, appunto. Né giusto né sbagliato, semplicemente inevitabile.
Il tutto però avrà una conseguenza
favorevole: quando le nostre capacità decisionali saranno in parte gestite dai
computer ci renderemo conto che la strada intrapresa è tragicamente sbagliata e
verrà elaborato un sistema per uscirne fuori, un cambiamento strategico globale
e definitivo del nostro modo di intendere la vita, la storia, il nostro
rapporto con gli altri, il futuro dei nostri figli. L’umanità sarà una sola,
dotata di regole condivise, con una gestione sostenibile del pianeta, oppure
non ci sarà nessuna umanità. Siamo popolo di confine temporale, ci sarà un
prima ma non ci potrà essere un dopo se non decidiamo di attraversare la
barriera invisibile del lato peggiore della nostra animalità, se non trasformiamo
l’istinto di sopravvivenza individuale in istinto collettivo. Se non riusciremo
cioè a programmare bene i computer che penseranno insieme a noi i dettagli del
nostro destino. Qualcuno dice che non ci può essere un vero cambiamento epocale
senza una soluzione di continuità, senza un salto storico epocale che potrebbe
anche essere devastante. E’ una possibilità, dobbiamo metterla in conto, e
potremmo esserci più vicini di quanto pensiamo, basterebbe che la Grecia
uscisse dall’Euro e già ne avremmo un assaggio (la reazione a catena che ne può
scaturire è del tutto imprevedibile). Insomma, un nuovo diluvio universale,
economico e finanziario nonché di gestione delle risorse e del vivere sociale,
verso cui l’umanità della nostra epoca sta correndo a perdifiato.
Sono pessimista? Certo lo sono,
ma il pessimismo è una qualità profetica. Aveva forse torto Cassandra? Quello
che per noi è solo un capitolo dell’Iliade per i troiani è stata la fine della
loro civiltà. Quello che per l’umanità di fine secolo (se ce ne sarà ancora
una, beninteso) sarà solo un punto di passaggio, un capitolo dei loro libri di
storia per quanto fondamentale, per noi potrebbe essere la fine del mondo come
lo abbiamo sempre inteso e come lo abbiamo sempre immaginato. Ma lo abbiamo
sempre immaginato male, ce ne dobbiamo rendere conto e lo dobbiamo accettare.
Per questo mi viene da sorridere
quando penso al genio visionario di sei secoli fa e lo confronto con i
politucoli che abbiamo intorno, dettagli insignificanti di un’epoca malata, i
cui abitanti hanno sostituito i neuroni biologici con quelli catodici. Epoca di
passaggio, ancora immatura, inconsapevole, vittima di imbonitori e autonominati
profeti, che mettono se stessi davanti alle loro idee, che vogliono sedurre e
non convincere, perché qualcuno gli ha insegnato che la politica è marketing e
che una delle regole del marketing è la relazione inversa tra la capacità di
pensiero dei consumatori e gli incassi ottenuti. Una umanità mantenuta
volutamente stupida e apatica perché è la condizione in cui si può esercitare
il dominio. Chi apre una scuola chiude una galera, diceva Victor Hugo. Ecco,
nella nostra epoca succede il contrario.
Che poi ci vengono anche a fare
la morale, si appropriano di concetti come li avessero inventati loro. Li
dicono e poi fanno finta di dimenticarli, che non sono mica fessi. Partecipazione,
trasparenza, solidarietà, pari opportunità, responsabilità, libertà. Già,
libertà. A sentirli parlare si capisce che non hanno capito un beneamato di
cosa significa libertà. Te la fanno passare come quella cosa che ti permette di
fare quello che vuoi, e invece è esattamente il contrario. Libertà è avere la
possibilità di decidere il nostro destino e quello della nostra epoca, di
stabilirne finanche i dettagli. Chi non sceglie non è libero, chi non partecipa
non è libero, chi si chiude in casa non è libero. La libertà non è una cosa che
puoi decidere di non utilizzare, o sei libero o sei schiavo, non ci sono vie di
mezzo, perché se non eserciti la tua libertà ci sarà sicuramente qualcuno che
prima o poi se ne approfitta e prederà le decisioni al posto tuo, a volte
contro di te. Matematico.
La schiavitù auto inflitta è un
altro tragico dettaglio della nostra epoca, che i nostri politici non riescono
a vedere, o peggio sfruttano a loro vantaggio personale. Ma non è loro la
responsabilità, se i nostri politici sono scarsi o sfruttatori la colpa è dello
spazio che tutti noi abbiamo lasciato libero perché venisse occupato da chi non
se lo meritava. Quello spazio che doveva essere invece occupato dalla nostra
libertà. Dare la colpa agli altri è uno stupido alibi, chiamarsi fuori dalla
nostra responsabilità di cittadini non risolverà mai un bel niente, correre
dietro all’ennesimo pifferaio magico è solo l’ennesimo errore, che si
concluderà con l’ennesima delusione. Non bisogna abbattere i partiti, bisogna
ripensarli. Bisogna che la smettano di guardarsi l’ombelico e comincino a promuovere,
furiosamente, la partecipazione dei cittadini, perché se non possiamo pensare a
una democrazia senza il concetto di rappresentanza, non possiamo nemmeno
pensare a partiti senza popolo. Devono cominciare a pensare, oggi, a come
gestire l’umanità globalizzata, a come pensare a mettere in moto un sistema
circolare e non lineare dell’utilizzo delle risorse, a come gestire il
passaggio da homo sapiens a homo technologicus, a come immaginare la
società dell’uomo di fine secolo, per dargli la possibilità di prenderci in
giro. Perché se lo farà vuol dire che esisterà. Lo so è impossibile riuscirci,
è per questo che spero nelle macchine, riusciranno a essere più umane di noi,
riusciranno a imporre la logica, più affidabile di quel fantomatico “buon
senso” che tutti i politici dicono di avere e che invece ha dei contorni
talmente sfumati che nessuno sa di preciso cosa sia.
La nostra epoca è piena di
dettagli frantumati, che bisognerà, per forza di cose, mettere insieme.
Possiamo decidere di farlo oppure possiamo sperare che succeda da solo, la
differenza sta nelle conseguenze. Ma è inevitabile che ciò avvenga se vogliamo chiamarci
umanità. Altrimenti avremo davanti un lungo, oscuro periodo in cui pochi ricchi
useranno la violenza per accedere alle poche risorse disponibili, riducendo il
resto degli umani in schiavitù, quella vera. E allora i prossimi anni saranno
solo una corsa per stare dalla parte dei ricchi e non degli schiavi, come del
resto è accaduto finora e come sta continuando ad accadere. Rimettere insieme
la nostra epoca frantumata vuol dire quindi accettare di essere liberi e
assumercene la responsabilità. Vuol dire anche uscire dai nostri limiti fisici
e mentali e metterci in comunicazione con il mondo. Cominciamo a usare i nostri
neuroni digitali, volenti o nolenti in futuro non potremo farne a meno.
Chiediamo, proponiamo, pretendiamo che i nostri rappresentanti facciano
l’impossibile per pensare al nostro futuro, ma seriamente, perché il nostro
futuro non può prescindere da una rivoluzione culturale nel modo di intendere
la vita, e questa è una cosa dannatamente seria. O risorgiamo come collettivo
oppure, come diceva un allenatore di football, saremo annientati
individualmente.