giovedì 31 maggio 2012

Mettere insieme i dettagli di un’epoca


di Ivan Vaghi

Qualcuno prima o poi farà il riassunto e saranno molte le cose che non torneranno. Perché incomprensibili e perché nessuno le vorrà più indietro (prodigi dei giochi di parole). Quando si vive un’epoca felice la gente se ne accorge, ne ha consapevolezza, facile dire che non è il nostro caso, in quest’esordio di secolo.
Un tizio qualche annetto fa, circa centossessanta a dirla tutta, aveva messo in guardia dai pericoli del capitalismo industriale, aveva parlato di inevitabili crisi ricorrenti, aveva teorizzato i rischi della globalizzazione (ebbene sì, centossessanta anni fa), e tante altre cose debitamente ignorate. La volontà di tutti, dicevano e dicono ancora oggi gli ignoratori, è lo sviluppo economico, che ovviamente non avrà mai fine. Ci saranno sempre nuovi mercati da spremere a costo di andare sulla Luna. Il PIL è e sarà sempre la nostra religione, e Henry Ford è il suo profeta. Qualcun altro, ma qui bisogna andare indietro nel tempo davvero, diciamo sei secoli, diceva che il destino degli uomini è sottoposto inevitabilmente al rischio di rovesci della sorte, e quindi il miglior stato possibile è quello che prevede la partecipazione di più gente possibile perché così la sfiga sarà costretta a sparare nel mucchio. Ci sarà sicuramente qualche vittima ma lo stato vivrà. Che poi è la logica del branco, ci si difende gli uni con gli altri, si vive la stessa vita, ognuno si fa carico della propria quota di rischio e di responsabilità, ognuno è legato agli altri e ognuno ha a cuore il destino degli altri quando va bene e anche quando va male, e quando va male ci sono le risorse collettive per andare avanti lo stesso, più preparati di prima.
L’umanità di fine secolo si guarderà indietro e cercherà di mettere insieme i dettagli di quest’epoca, che aveva scelto l’eterno presente come regola di vita, che aveva dimenticato come si fa a programmare, che aveva rinunciato a immaginarsi come comunità umana. Insomma, un bambino che non voleva crescere e che voleva continuare a giocare a mosca cieca a tutti i costi. L’umanità di fine secolo non si capaciterà di come non abbiamo messo in conto cose così semplici, che cioè le risorse non sono eterne, che le possibilità di smaltimento dei rifiuti non sono infinite, che la felicità non è direttamente proporzionale al prodotto interno lordo e un sacco di altre cose. Certo per loro sarà facile perché saranno dei cyborg. Il darwinismo infatti colpisce anche le connessioni neurali, quelle che non vengono usate si “spengono”, una specie di stand-by energetico che alla lunga diventa sconnessione definitiva, un’estinzione di fatto. È già iniziato il processo di spostamento di alcune nostre facoltà neuronali, trasferite ai computer e alla rete, ed è un processo che sarà sempre più evidente. Il che vuol dire che prima o poi alcune (molte?) delle nostre reti neurali biologiche verranno spente e sostituite dalle reti di connessione digitale, quindi le nostre facoltà mentali saranno in parte organiche e in parte artificiali. Cyborg, appunto. Né giusto né sbagliato, semplicemente inevitabile.
Il tutto però avrà una conseguenza favorevole: quando le nostre capacità decisionali saranno in parte gestite dai computer ci renderemo conto che la strada intrapresa è tragicamente sbagliata e verrà elaborato un sistema per uscirne fuori, un cambiamento strategico globale e definitivo del nostro modo di intendere la vita, la storia, il nostro rapporto con gli altri, il futuro dei nostri figli. L’umanità sarà una sola, dotata di regole condivise, con una gestione sostenibile del pianeta, oppure non ci sarà nessuna umanità. Siamo popolo di confine temporale, ci sarà un prima ma non ci potrà essere un dopo se non decidiamo di attraversare la barriera invisibile del lato peggiore della nostra animalità, se non trasformiamo l’istinto di sopravvivenza individuale in istinto collettivo. Se non riusciremo cioè a programmare bene i computer che penseranno insieme a noi i dettagli del nostro destino. Qualcuno dice che non ci può essere un vero cambiamento epocale senza una soluzione di continuità, senza un salto storico epocale che potrebbe anche essere devastante. E’ una possibilità, dobbiamo metterla in conto, e potremmo esserci più vicini di quanto pensiamo, basterebbe che la Grecia uscisse dall’Euro e già ne avremmo un assaggio (la reazione a catena che ne può scaturire è del tutto imprevedibile). Insomma, un nuovo diluvio universale, economico e finanziario nonché di gestione delle risorse e del vivere sociale, verso cui l’umanità della nostra epoca sta correndo a perdifiato.
Sono pessimista? Certo lo sono, ma il pessimismo è una qualità profetica. Aveva forse torto Cassandra? Quello che per noi è solo un capitolo dell’Iliade per i troiani è stata la fine della loro civiltà. Quello che per l’umanità di fine secolo (se ce ne sarà ancora una, beninteso) sarà solo un punto di passaggio, un capitolo dei loro libri di storia per quanto fondamentale, per noi potrebbe essere la fine del mondo come lo abbiamo sempre inteso e come lo abbiamo sempre immaginato. Ma lo abbiamo sempre immaginato male, ce ne dobbiamo rendere conto e lo dobbiamo accettare.
Per questo mi viene da sorridere quando penso al genio visionario di sei secoli fa e lo confronto con i politucoli che abbiamo intorno, dettagli insignificanti di un’epoca malata, i cui abitanti hanno sostituito i neuroni biologici con quelli catodici. Epoca di passaggio, ancora immatura, inconsapevole, vittima di imbonitori e autonominati profeti, che mettono se stessi davanti alle loro idee, che vogliono sedurre e non convincere, perché qualcuno gli ha insegnato che la politica è marketing e che una delle regole del marketing è la relazione inversa tra la capacità di pensiero dei consumatori e gli incassi ottenuti. Una umanità mantenuta volutamente stupida e apatica perché è la condizione in cui si può esercitare il dominio. Chi apre una scuola chiude una galera, diceva Victor Hugo. Ecco, nella nostra epoca succede il contrario.
Che poi ci vengono anche a fare la morale, si appropriano di concetti come li avessero inventati loro. Li dicono e poi fanno finta di dimenticarli, che non sono mica fessi. Partecipazione, trasparenza, solidarietà, pari opportunità, responsabilità, libertà. Già, libertà. A sentirli parlare si capisce che non hanno capito un beneamato di cosa significa libertà. Te la fanno passare come quella cosa che ti permette di fare quello che vuoi, e invece è esattamente il contrario. Libertà è avere la possibilità di decidere il nostro destino e quello della nostra epoca, di stabilirne finanche i dettagli. Chi non sceglie non è libero, chi non partecipa non è libero, chi si chiude in casa non è libero. La libertà non è una cosa che puoi decidere di non utilizzare, o sei libero o sei schiavo, non ci sono vie di mezzo, perché se non eserciti la tua libertà ci sarà sicuramente qualcuno che prima o poi se ne approfitta e prederà le decisioni al posto tuo, a volte contro di te. Matematico.
La schiavitù auto inflitta è un altro tragico dettaglio della nostra epoca, che i nostri politici non riescono a vedere, o peggio sfruttano a loro vantaggio personale. Ma non è loro la responsabilità, se i nostri politici sono scarsi o sfruttatori la colpa è dello spazio che tutti noi abbiamo lasciato libero perché venisse occupato da chi non se lo meritava. Quello spazio che doveva essere invece occupato dalla nostra libertà. Dare la colpa agli altri è uno stupido alibi, chiamarsi fuori dalla nostra responsabilità di cittadini non risolverà mai un bel niente, correre dietro all’ennesimo pifferaio magico è solo l’ennesimo errore, che si concluderà con l’ennesima delusione. Non bisogna abbattere i partiti, bisogna ripensarli. Bisogna che la smettano di guardarsi l’ombelico e comincino a promuovere, furiosamente, la partecipazione dei cittadini, perché se non possiamo pensare a una democrazia senza il concetto di rappresentanza, non possiamo nemmeno pensare a partiti senza popolo. Devono cominciare a pensare, oggi, a come gestire l’umanità globalizzata, a come pensare a mettere in moto un sistema circolare e non lineare dell’utilizzo delle risorse, a come gestire il passaggio da homo sapiens a homo technologicus, a come immaginare la società dell’uomo di fine secolo, per dargli la possibilità di prenderci in giro. Perché se lo farà vuol dire che esisterà. Lo so è impossibile riuscirci, è per questo che spero nelle macchine, riusciranno a essere più umane di noi, riusciranno a imporre la logica, più affidabile di quel fantomatico “buon senso” che tutti i politici dicono di avere e che invece ha dei contorni talmente sfumati che nessuno sa di preciso cosa sia.
La nostra epoca è piena di dettagli frantumati, che bisognerà, per forza di cose, mettere insieme. Possiamo decidere di farlo oppure possiamo sperare che succeda da solo, la differenza sta nelle conseguenze. Ma è inevitabile che ciò avvenga se vogliamo chiamarci umanità. Altrimenti avremo davanti un lungo, oscuro periodo in cui pochi ricchi useranno la violenza per accedere alle poche risorse disponibili, riducendo il resto degli umani in schiavitù, quella vera. E allora i prossimi anni saranno solo una corsa per stare dalla parte dei ricchi e non degli schiavi, come del resto è accaduto finora e come sta continuando ad accadere. Rimettere insieme la nostra epoca frantumata vuol dire quindi accettare di essere liberi e assumercene la responsabilità. Vuol dire anche uscire dai nostri limiti fisici e mentali e metterci in comunicazione con il mondo. Cominciamo a usare i nostri neuroni digitali, volenti o nolenti in futuro non potremo farne a meno. Chiediamo, proponiamo, pretendiamo che i nostri rappresentanti facciano l’impossibile per pensare al nostro futuro, ma seriamente, perché il nostro futuro non può prescindere da una rivoluzione culturale nel modo di intendere la vita, e questa è una cosa dannatamente seria. O risorgiamo come collettivo oppure, come diceva un allenatore di football, saremo annientati individualmente.

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