sabato 30 agosto 2014

La nostra buona e cattiva coscienza

di Ivan Vaghi

Anni fa, ormai molti, ascoltavo spesso la canzone di un gruppo sconosciuto ai più intitolata “Where were you hiding when the storm broke?” (Dove ti stavi nascondendo quando è scoppiata la tempesta?). Parla di quelli che amano stare al chiuso dei loro recinti e lasciano che i problemi vengano risolti dagli altri, anche nei momenti più difficili. Ogni tanto mi ritorna in mente, magari quando sento di due ragazze che vengono rapite mentre stanno cercando di risolvere qualche problema. Prototipo di quelli che non si nascondono, ma che anzi si buttano in mezzo alla tempesta se è necessario farlo.
Dieci anni fa Simona Torretta, un’amica di una coppia di miei amici, era stata rapita insieme a Simona Pari in Iraq. Erano due cooperanti di “Un ponte per..”. Sarà perché quelli che parlano di ponti mi hanno sempre suscitato più ammirazione di quelli che parlano di muri (e di recinti), sarà perché c’era una maggiore vicinanza, ma la vicenda mi aveva particolarmente coinvolto. Al punto da trovare rivoltanti le “critiche”, chiamiamole così, di quelli che al sicuro dei loro recinti puntavano il dito contro quelle due ragazze così sciocche, secondo loro, da andare in luoghi tanto pericolosi per aiutare la gente.
Quando ho saputo di Greta e Vanessa sapevo che questi fenomeni da baraccone si sarebbero ancora fatti sentire, cosa puntualmente avvenuta. “C’è tanta da gente da aiutare anche qui” è l’accusa più benevola. “Sono incoscienti, provocano più problemi di quelli che risolvono” è invece quella più cinica. Tralascio le battutine volgari e quelle più stupide, figlie di personaggi psicologicamente turbati e provati da una vita piena di frustrazione e fallimenti. Il problema non sono loro, sono tutti quelli che si sentono più furbi degli altri perché nei loro recinti queste cose non succedono, e si sentono in dovere di farlo sapere a tutti. Si credono furbi. Credono di aver capito tutto della vita e di poterla insegnare agli altri. Credono che un muro sia infinitamente più efficiente di un ponte. Non riescono nemmeno a notare che i ponti sono sempre rimasti mentre i muri sono sempre stati abbattuti.
La colpa è di quella cattiva coscienza collettiva che  impedisce a molti di vedere le cose dalla giusta prospettiva. Viene costruito uno schermo di autoprotezione davanti ai nostri occhi perché l’autostima è una componente fondamentale della nostra vita quotidiana e non possiamo sopportare l’idea che esista qualcuno che ci può far capire quanto siamo inadeguati e quanto siamo legati a quelle piccole banalità che abbiamo eletto a comodi luoghi di rifugio. C’è qualcuno che non può sopportare che ci siano persone migliori di quanto loro potranno mai essere e di rivelare quanto siano banali e ordinarie le loro vite. Qualcuno, per proteggersi, pensa inconsciamente che la soluzione è versare loro addosso tutto il fango possibile. Sminuirle per sentirsi alla pari, o superiori.
Viviamo in un mondo così, in cui due ragazze di vent’anni sentono l’urgenza di svolgere un compito che dovrebbe essere responsabilità delle istituzioni internazionali. Sono la buona coscienza di un mondo cinico che si nasconde nella tempesta, che manda i più coraggiosi a riparare i danni provocati da millenni di muri e di incomprensioni.
Calvino diceva: “Se alzi un muro pensa a cosa lasci fuori”. Vanessa e Greta sono là fuori, al di là del muro della nostra cattiva coscienza. Sono preziose, vanno salvaguardate. Non solo le loro persone fisiche, ma il significato che portano con sé, loro malgrado. Chi parte con uno zaino pieno di medicine non lo fa per diventare un simbolo o per avere riscontro mediatico, come quei politici che vanno in zona di guerra (dicono loro, in realtà molto lontano dalle zone veramente pericolose) portandosi al seguito decine di giornalisti su un volo di stato e assicurandosi il passaggio in prima serata televisiva. Chi parte come hanno fatto Vanessa e Greta lo fa perché è consapevole che salvare anche una sola vita può giustificare un’intera esistenza.
Dal Talmud, libro sacro dell’Ebraismo: “Chi salva una vita salva il mondo intero”.
Quella canzone diceva “torna nel tuo rifugio se proprio non ce la fai a liberartene”. Per cui tornate nei vostri rifugi se proprio non volete rinunciare alla vostra cattiva coscienza, così calda e confortevole, però almeno state zitti. Lasciate che il lavoro difficile venga svolto dai veri uomini e dalle vere donne, come Greta e Vanessa. Chi va in mezzo alla tempesta è consapevole dei rischi che corre ed è consapevole che i danni sono peggiori e più difficili da riparare. Chi va in mezzo alla tempesta forse, in cuor suo, sa che c’è una possibilità di non tornare o di affrontare brutte esperienze, però ci va lo stesso. È questo che fa la differenza.

Where were you hiding when the storm broke, when the rain began to fall

The Alarm   

venerdì 1 agosto 2014

Mi sono svegliato a Gaza

di Ivan Vaghi

Questa mattina mi sono svegliato a Gaza. Fino a qualche tempo fa svegliarsi era un sollievo, essere ancora vivi da queste parti è una notizia. Adesso è solo un giorno in più, forse di sofferenza, chissà se ne vale la pena. La prima cosa che fai alla mattina è l'elenco mentale dei posti in cui ti sposterai con la convinzione che potrebbe essere colpito e che non ce n’è uno che puoi considerare sicuro. Gli israeliani dicono che quelli di Hamas usano i civili come scudi umani. Io questo non lo so, la cosa certa è che loro non si fanno nessuno scrupolo a sparare contro quegli scudi umani, un modo impersonale per non usare la parola bambini, donne, anziani, uomini innocenti. Uccido te adesso perché tu forse, un giorno, ucciderai me. Questa è la loro logica.

Hanno bombardato anche le scuole dell’ONU. Io non sono un uomo colto, ma lo so che diverse risoluzioni dell’ONU contro Israele non sono mai state rispettate. Sparare contro l’ONU mi sembra un gesto fin troppo significativo di sfida. Forti dell’appoggio americano e occidentale hanno sempre pensato che potessero fare finta di niente, che le decisioni di politica internazionale andavano bene solo se erano a favore di Israele e non contro. Non mi sembra onesto ma non ho nemmeno voglia di giudicare. Essere nati a Gaza probabilmente è stata solo sfortuna.

Siamo nati e cresciuti con la possibilità di scegliere in che modo morire, combattendo o sotto le bombe, da innocenti. È quello che ci siamo sentiti dire troppo spesso e non ho intenzione di giudicare nemmeno quelli che hanno scelto la prima ipotesi. Si sceglie di combattere per rabbia o per paura, per disperazione o per vendetta, o perché ci sembra che non sia rimasto niente per cui valga la pena vivere. Dio? Per quello che mi riguarda è solo un’altra cosa da bestemmiare, un’altra cosa contro cui prendersela, per spostare la sofferenza e la frustrazione. Per altri è una speranza e una consolazione, in entrambi i casi è un modo per sopravvivere.

I bambini di Gaza continuano ad andare a scuola, quelli che possono, continuano a giocare per strada, continuano a sfidare la morte. Fanno bene. Ti uccidono veramente solo quando ti costringono a non essere quello che sei e a non fare quello che desideri, quando ti obbligano a rintanarti nelle fogne come un topo, quando ti costringono ad avere paura per il solo fatto di vivere. Morire sotto le bombe può essere un’alternativa auspicabile.


Forse stasera tornerò a casa ancora vivo, forse domani mattina mi sveglierò ancora a Gaza. O forse a Damasco. Il mondo è pieno di posti in cui si può scomparire nell’indifferenza del mondo. C’è l’imbarazzo della scelta.