martedì 31 agosto 2010

Sussidiarietà in salsa lombarda

La Lombardia è ormai da tempo diventata un feudo di Comunione e Liberazione. Sulle perverse modalità grazie alle quali ci è riuscita torneremo in un secondo tempo. Ora volevo invece analizzare il principio base a cui CL dice di volersi uniformare nel suo intervento sociale, la sussidiarietà. Si tratta di un concetto abbastanza vago e che quindi si presta a numerose interpretazioni, ma che in sostanza prevede una visione gerarchica della vita sociale, in cui, secondo alcuni, le società di ordine superiore (istituzioni locali e nazionali) devono aiutare, sostenere e promuovere lo sviluppo di quelle minori (individui, famiglie, associazioni). Secondo altri invece le società di ordine superiore non “devono interferire” con le attività di quelle di ordine inferiore, vale a dire che lo Stato non deve intervenire là dove i cittadini possono fare da soli. Questo vuol dire che il “subsidium” cioè l’aiuto, per alcuni è sostanzialmente verticale, per altri invece è quello che i cittadini danno a loro stessi, riconoscendo allo Stato il solo ruolo di coordinamento.

La questione si aggrava perché entra in ballo anche la religione: la sussidiarietà è uno dei principi cardine della dottrina sociale della Chiesa (cattolica), cioè quell’insieme di norme di intervento sociale cui i politici cattolici devono necessariamente fare riferimento (avete letto bene, necessariamente, perché il concetto di obbedienza non vale solo per chi ha preso i voti). Tra le varie cose la sussidiarietà cattolica dice che “il fulcro dell'ordinamento giuridico resta la persona, intesa come individuo in relazione, e perciò le funzioni pubbliche devono competere in prima istanza a chi è più vicino alle persone, ai loro bisogni e alle loro risorse”. Sembra il manifesto del federalismo, e invece è farina del sacco di Leone XIII (1893).

Se qualcuno vede un certo sospetto nei confronti dello Stato ha perfettamente ragione. Si potrebbero tirare in ballo la Storia e il “non expedit” di Pio IX che di fatto vietava ai cattolici di andare a votare e di partecipare alla vita politica italiana (norma superata dal Patto Gentiloni, che in buona sostanza era un voto di scambio…), ma è più semplice tornare alle dottrina sociale e leggere: “né lo Stato né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa e alla responsabilità delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà. Con ciò, la dottrina sociale della Chiesa si oppone a tutte le forme di collettivismo". Secondo la dottrina sociale quindi non è ammesso il comunismo (e si sapeva), ma nemmeno i kibbutz (e si intuiva) e nemmeno le forme di vita comunitaria monastica (difficile non considerarla una forma di collettivismo).

Intendiamoci, ci sono anche molte cose buone nella dottrina sociale, come il principio di solidarietà: “l’uomo deve contribuire con i suoi simili al bene comune della società, a tutti i livelli”, cui consegue che “la dottrina sociale della Chiesa si oppone a tutte le forme di individualismo sociale o politico”. Tipico esempio di come CL, fermo sostenitore degli individualismi formigoniani e berlusconiani, fa finta di non vedere quello che non gli conviene. Non solo, è interessante anche come vengono individuati gli ambiti di intervento: “è urgente ricostruire, a misura della strada, del quartiere o del grande agglomerato, il tessuto sociale in cui l’uomo possa soddisfare le esigenze della sua personalità. Centri di interesse e di cultura devono essere creati o sviluppati a livello di comunità e di parrocchie, in quelle diverse forme di associazione, circoli ricreativi, luoghi di riunione, incontri spirituali comunitari in cui ciascuno, sottraendosi all’isolamento, ricreerà dei rapporti fraterni”. Vagliela a spiegare al buon Leone XIII la chiusura del CAG di Solbiate….

Ma si diceva delle religioni, per quella calvinista, tipica dei paesi anglosassoni, la sussidiarietà viene intesa all’interno delle rispettive sfere di competenza. In soldoni: se vuoi fare per conto tuo bene, però ti arrangi, anche finanziariamente. E qui casca l’asino, perché questo è il vero inghippo della sussidiarietà in salsa lombarda, che non vuole interferenze da parte dello Stato (non a caso uno degli slogan di CL è “Più società meno Stato”), ma poi fa di tutto – e quando si dice di tutto vuol dire davvero di tutto – per avere i finanziamenti pubblici per le loro attività.

I conti quindi tornano: CL, dall’alto (o dal basso, a seconda) del suo fondamentalismo cattolico, non accoglie l’interpretazione calvinista della sussidiarietà – che comunque rigetta anch’essa lo statalismo – rifacendosi invece a una interpretazione che però forse non è nemmeno quella cattolica, che non parla esplicitamente di finanziamento, ma di aiuto in senso lato. Di certo però la loro interpretazione è molto remunerativa, soprattutto se si riesce a indirizzare i finanziamenti pubblici, come loro sanno fare benissimo. La Chiesa cattolica sa ma abbozza, perché il principio di sussidiarietà anglosassone prevede anche che non si debbano finanziare le Chiese, e allora a quel punto è meglio fare finta di niente e stare dalla stessa parte. Non per niente fu l’allora cardinale Ratzinger a celebrare il funerale di don Giussani, che tra l’altro negli ultimi tempi fu piuttosto critico nei confronti dei suoi seguaci: “la nostra compagnia può essere un grande ma gustoso alibi, ma senza il motivo che la tiene insieme, la presenza di Cristo, è veramente una menzogna, è una bugia, è fallace. A me pare che non cerchino Cristo!” (Marco Damilano, Il partito di Dio, p.98).

Al di là però del parere del fondatore, CL e la Compagnia delle Opere, che di CL è il braccio “armato” e secolarizzato, quindi meno vincolato da obblighi morali di osservanza e ubbidienza (situazione di comodo?), proseguono per la loro strada.

A sostegno dell’invasività che, con tutti i mezzi ripetiamo, manifesta a livello di sanità pubblica e privata e di formazione professionale privata ma con soldi rigorosamente pubblici elargiti dalla Regione (con a capo il ciellino Formigoni e con numerosi ciellini imposti nei luoghi dove si prendono le decisioni e si erogano i finanziamenti), viene preso anche l’articolo 5 del trattato che istituisce la Comunità europea. L’articolo parla esplicitamente di sussidiarietà, ma qui CL si ferma, limitandosi a far capire che loro agiscono per l’obbligo morale di osservare chissà quali normative internazionali. L’articolo 5 invece tratta di questioni puramente giuridiche: “mira a garantire che le decisioni siano adottate il più vicino possibile al cittadino, verificando che l'azione da intraprendere a livello comunitario sia giustificata rispetto alle possibilità offerte dall'azione a livello nazionale, regionale o locale”. Concretamente ciò significa che “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza l'Unione interviene soltanto quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale, regionale o locale. Il principio di sussidiarietà è strettamente connesso ai principi di proporzionalità e di necessità, secondo cui l'azione dell'Unione non può andare al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del trattato.” Ovviamente non si parla, né lo si poteva fare, di sanità privata, di cooperative sociali confessionali, di corsi di formazione finanziati con soldi pubblici, né di tutte le attività grazie alle quali CL si sta arricchendo e sta consolidando le sue posizioni di potere.

Interpretazione è la parola chiave, dove ovviamente l’unica interpretazione possibile è quella di CL, perché si sa, loro parlano a nome di Dio. E ne sono convinti, così come tutti gli integralisti. Per intenderci, la migliore definizione dei ciellini in cui mi sono imbattuto, corroborata dalla mia personale esperienza, è questa: “in CL l’altro può essere solo salvato o combattuto, mai realmente incontrato per come è e per quello che è. L’altro e il diverso possono, da parte loro, diventare ciellini; se non lo fanno, allora sono altro e diverso in modo colpevole, irrimediabile, irrecuperabile; allora, se dipendesse dai ciellini, non lavorerebbero più e non potrebbero più vivere. Con l’altro e il diverso si può essere solo missionari o crociati; li si può soltanto colonizzare o normalizzare o negare”. Una comunità chiusa ed esclusiva, se ne fai parte “in CL incontri la ragazza, ti sposi, trovi lavoro, fai figli possibilmente senza limiti, li educhi, li “sistemi”, diventi nonno. Sempre con ciellini e tra ciellini. Preferibilmente solo con ciellini e tra ciellini. In CL preghi, passi le serate libere e le domeniche, sai che investimenti fare e con chi farli, sai in che negozi comprare, dove andare in vacanza, che libri leggere, in che scuola mandare i tuoi figli, da che medici farti curare, con che pompe funebri farti fare il funerale. Naturalmente a parole si dice l’esatto contrario.” Già, a parole si dice l’esatto contrario. Si dice e soprattutto si fa scrivere dai giornalisti militanti, amici o “collaborazionisti”, perché la propaganda è per loro elemento di fondamentale importanza strategica, tanto che hanno messo le mani anche sull’informazione e l’editoria. Non a caso della vicenda “Oil for food”, che vede coinvolto Formigoni e strani conti bancari all’estero intestati a prestanome, non viene mai fatta menzione da nessun organo di stampa. Ma questa è un’altra storia.

martedì 24 agosto 2010

Scrivo al mio Paese e vi dico cosa farei

La lettera di Walter Veltroni

Caro Direttore, scrivo al mio Paese. Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'autostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi
in questi mesi.

(Ansa)
(Ansa)
Scrivo ai lavoratori che sentono
che si è aperto un tempo nuovo e difficile, in cui, per resistere alla pressione di una globalizzazione diseguale, dovranno rinegoziare e ritrovare un equilibrio nuovo tra diritti e lavoro. Scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro.
Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, un secolo di questo tempo leggero e bulimico, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio. Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese.

Ma non è successo, per tanti motivi. Come cercherò altrove di approfondire, credo più per ragioni profonde e storiche che per limiti di quella campagna elettorale che si concluse con il risultato elettorale più importante della storia del riformismo italiano. Non è successo e dopo alcuni mesi io mi feci da parte. Forse è questo l'altro titolo per il quale sento di potermi rivolgere al mio Paese. Sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele, anche di fronte a varie vigliaccherie.

Cosa sta succedendo a noi italiani? Abbiamo trascorso la più folle e orrenda estate politica che io ricordi. Una maggioranza deflagrata, un irriducibile odio personale e politico tra i suoi principali contraenti, toni e giudizi che si scambiano non tra alleati ma tra i peggiori nemici. E poi dossier, colpi bassi, una orrenda aria putrida di ricatti e intimidazioni che ha messo in un unico frullatore informazione, politica e forse poteri altri costruendo un mix che non può non preoccupare chi considera la democrazia come un insieme di regole, di valori, di confini. Il Paese assiste attonito allo sfarinarsi della maggioranza solida che era emersa dalle urne, a ministri che sembrano invocare freneticamente la fine della legislatura, nuovi voti, nuovi conflitti laceranti. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito pubblico chi governa questo Paese sembra dominato dal desiderio della instabilità. E, tutto, senza una parola di autocritica. Chi ha vinto le elezioni e ne provoca altre neanche a metà delle legislatura vorrà almeno dichiarare il proprio fallimento politico?

L'alleanza di centrodestra sembra immersa nello scenario dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Prima l'abbandono di Casini, ora la irreversibile crisi con Fini. Le forze più moderate hanno abbandonato uno schieramento sempre più dominato dalla logica puramente personale degli interessi di Berlusconi e dallo spirito divisivo di una Lega che alimenta ogni forma di egoismo sociale con lo sguardo solo al tornaconto elettorale immediato. Con effetti che già registriamo nel sentire diffuso e nei comportamenti. Un Paese che smarrisce il suo senso di comunità, la sua anima solidale, la sua coscienza unitaria finisce con lo sfarinarsi violentemente.


Quella che stiamo vivendo è una profonda crisi del nostro sistema. Era la mia ossessione quando guidavo il Pd. Mi angoscia l'idea che la democrazia rischi sotto la pressione delle spinte populistiche e dei conservatorismi di varia natura. E la crisi di questi mesi rafforza una distanza siderale tra la vita politica e i reali bisogni dei cittadini e della nazione. Berlusconi forza costantemente e pericolosamente i confini immaginando di vivere in un regime che non esiste. Se ci fosse un semipresidenzialismo lui certo non potrebbe disporre, ciò che è già una insopportabile anomalia oggi, di giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari. Ma neanche quella che su questo giornale è stata giustamente definita la «repubblica acefala» può fare sentire al Paese che il sistema politico tempestivamente ascolta, comprende, decide. Indeterminatezza di tempi, modalità, sedi di decisione hanno accompagnato anche altre stagioni politiche.

(LaPresse)
(LaPresse)
Questo è il rischio che corriamo,
l'alternativa tra una monarchia livida e una pura difesa dell'esistente. E tra i cittadini rischia di rafforzarsi l'idea che di fronte alla velocità del nostro tempo, dei suoi repentini mutamenti sociali e finanziari, a essere più «utile» sia un sistema che decide, qualsiasi esso sia. Il rischio è che si faccia strada, anche in Occidente, quella suggestione di «democrazia autoritaria» che è già una realtà in sistemi, come quello russo o, in forma diversa, in quello cinese, che stanno segnando il tempo della fine dei blocchi. La possibilità che la società globale porti con sé un principio di disunità e che questo reclami poteri centrali forti e semplificati è molto di più di un rischio. Rimando per una analisi più compiuta al volume di John Kampfner Libertà in vendita o al bellissimo lavoro di Alessandro Colombo La disunità del mondo. In una società globale una democrazia che non decide è destinata a soccombere. Ma in una società globale la suggestione autoritaria si scontra con una irrefrenabile esigenza di libertà, libertà di sapere, dire, pensare.

Dunque l'unica strada che i veri democratici devono percorrere è quella di una repubblica forte e decidente. Ma questa comporta profonde e coraggiose innovazioni, nei regolamenti delle Camere, nell'equilibrio dei poteri tra governo e Parlamento, nelle leggi elettorali, nella riduzione dell'abnorme peso della politica, nella soppressione di istituzioni non essenziali. Bisogna semplificare e alleggerire, bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria. E, soprattutto, l'Italia, tutta, deve ingaggiare una lotta senza quartiere alla criminalità che succhia ogni anno 130 miliardi di euro alle risorse del Paese. Non basta che si arrestino i latitanti. La mafia è politica, è finanza. La mafia compra e condiziona. La mafia invade tutto il territorio e credo che ora, guardando le cronache di Milano o di Imperia, ci si accorga finalmente che non è un problema della Kalsa di Palermo o una invenzione di Roberto Saviano, ma una spaventosa realtà che altera il mercato, distorce la concorrenza, limita la libertà delle persone.

Le culture di progresso non possono declinare solo un verbo: difendere. Agli italiani non sembra di vivere in un Paese da conservare così come è. Un Paese che non ha una università tra le prime cento del mondo (dopo averle inventate), che ha una metà, meravigliosa, di sé sotto il condizionamento di poteri criminali, che ha evasione altissima e altissima pressione fiscale, che ha una amministrazione barocca e il primato dei condoni, che scarta come un cavallo l'ostacolo ogni volta che deve sfidare sondaggi e corporazioni. Un Paese fermo, che ha bisogno di correre. Che ha bisogno di politica alta, ispirata ai bisogni della nazione. Non è retorica. Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e altri hanno dimostrato che si può stare a Palazzo Chigi per servire gli italiani. Bene o male, ma servire gli italiani. Non se stessi.

Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi. Ma forse con una visione opposta a quella di alcuni protagonisti della vita politica italiana. Spero che finisca questo tempo non per tornare a quello passato. Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo e riportare l'orologio ai giorni in cui pochi leader decidevano vita e morte dei governi, quasi sessanta in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante. Anche perché quei partiti avevano storie grandi che affondavano nel Risorgimento o nelle lotte bracciantili e quei leader avevano fatto, insieme, la Resistenza o la Ricostruzione. Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché la sua anomalia (una delle tante, troppe della storia italiana) ha costretto dentro recinti innaturali, pro o contro, una dialettica politica che avrebbe potuto e dovuto esprimersi nelle forme tipiche della storia del moderno pensiero politico occidentale. Senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico. Solo così sarà possibile affrontare, in un clima civile, l'indifferibile esigenza di ammodernamento costituzionale per dare alla democrazia la capacità di guidare davvero la nuova società italiana. Se saremo invece tanto cinici da pensare che il declino di Berlusconi possa aprire la strada a un nuovo partitismo senza partiti e alla sottrazione ai cittadini del potere di decidere il governo, finiremo con l'allungare l'agonia del berlusconismo e l'autunno italiano.


In questa estate orrenda non per caso la frase più citata dai leader politici è stata «Mi alleo anche con il diavolo pur di...». Lo ha detto Calderoli parlando del Federalismo, lo hanno detto alcuni leader del centrosinistra parlando della necessità di una santa alleanza contro Berlusconi. Io rimango dell'idea che invece le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica. In fondo il repentino declino del centrodestra conferma proprio questo. È giusto semmai che, in caso di crisi di governo, si cerchino soluzioni capaci di fronteggiare per un breve periodo l'emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale dando forma, per esempio attraverso i collegi uninominali e le primarie per legge, a un moderno e maturo bipolarismo. Perché poi, alle elezioni prodotte dal dissolvimento della destra, si presenti uno schieramento alternativo capace di assicurare all'Italia quella stagione di vera innovazione riformista che questo nostro Paese non ha mai conosciuto. Perché questo Paese deve uscire dall'incubo dell'immobilità che perpetua rendite e povertà. Deve conoscere un tempo di radicale, profondo cambiamento. È questo, da decenni, il frutto dell'alternanza nei diversi Paesi europei.

Il nostro è un meraviglioso Paese. Amare l'Italia e gli italiani dovrebbe essere una precondizione per partecipare alla vita politica. Chiunque alzi gli occhi nella Cappella Palatina di Palermo o nella galleria di Diana di Venaria Reale non può non sentire tutto intero l'orgoglio di essere figlio di questo Paese e della sua straordinaria e travagliata storia. Lo stesso orgoglio che si prova pensando agli italiani che lavorano per la nazione, imprenditori od operai, insegnanti o poliziotti. Per questo il nostro Paese merita di più. Merita di più dei dossier e dei veleni. Di più della politica ridotta a interesse di un leader. Di più delle alleanze con il diavolo. Il nostro Paese deve smettere di vivere dominato solo da passioni tristi. È difficile. È possibile.

Walter Veltroni

giovedì 5 agosto 2010

Astensionismi

di Ivan Vaghi

Andiamo, ci siamo cascati tutti una volta o l’altra. L’astensionismo è una sirena particolarmente efficiente nelle sue lusinghe. A me è capitato una volta: era l’ottobre 1981, durante un’assemblea studentesca in cui si doveva votare uno sciopero per una questione di importanza galattica, al punto che non me la ricordo neanche. Si viveva nell’onda lunga degli anni ’70, la strage di Bologna era solo di un anno prima, i cuori battevano ancora forte, e gli studenti dell’epoca continuavano a pensare che per cambiare il mondo era sufficiente alzare la voce. Per un quattordicenne che fino a tre mesi prima frequentava un istituto religioso si trattava di uno shock culturale, e la parola “astensione” suonava come una deliziosa via di fuga. Da allora ho sempre pensato che l’astensionismo non fosse niente di più, il rifugio di chi non vuole prendere decisioni, e mi sono ripromesso che non ci sarei più cascato.

“Il sì è sì e il no è no”, diceva Gesù di Nazareth. E il resto? “Viene dal maligno”, rincarava con un vago accento accusatorio. O dalla politica, aggiungo io più modestamente, che con il maligno a volte condivide accezioni sinistre e oscure. Non per niente l’astensionismo, la volontà precisa di non dire né sì né no, è una comune pratica politica. Uno può sempre dire, malignamente, di non essersi sbagliato.

Tutto questo a presentazione dell’evento politico più importante delle ultime settimane, cioè il voto per la mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, che è stato il battesimo del fuoco per il nuovo gruppo parlamentare Futuro e libertà per l’Italia, meglio noto come “i finiani”. Che si è astenuto… Alla mia età dovrei smetterla di essere sorpreso. I finiani hanno litigato con Berlusconi anche per questo motivo, ritengono che vada rispettato l’articolo 54 della Costituzione che parla di impegno e onore da parte di chi ricopre incarichi pubblici, che tutti questi personaggi “chiacchierati” (eufemismo) nel PdL non vanno bene, che chi è indagato per reati gravi dovrebbe fare un passo indietro. Ecc. ecc., via a pescare nella retorica del buon governo. Retorica sì, solo chiacchiere, perché quando hanno dovuto votare mica lo hanno sfiduciato a Caliendo. Volete sapere come la penso? E’ stato un avvertimento a Berlusconi: adesso siamo noi che decidiamo la strategia del governo, altrimenti lo facciamo cadere, i numeri sono dalla nostra. I più raffinati la chiamano “golden share”, io la chiamo “mozione Mastella”, la possibilità cioè che una componente molto minoritaria di un governo tenga per le palle tutto l’esecutivo. Se volete chiamatelo ricatto, perché quello è.

Non solo i finiani però si sono astenuti, anche l’UDC ad esempio, o quell’altro cuor di leone di Rutelli. Casini dice che “non vuole mischiarsi ai giustizialisti”. Certo, perché in Italia chi commette reati è una vittima mentre chi li persegue è un forcaiolo giustizialista. Ovviamente solo se sono coinvolti dei politici. Anche qui, a parer mio, c’è dell’altro, si può notare cioè una prova tecnica di futura maggioranza: Casini, Fini, il cagnolino Rutelli, ci aggiungiamo Montezemolo, forse Draghi, e i vari fuoriusciti dagli altri schieramenti che nella nuova DC vedranno anche il nuovo poltronificio. Intanto si sono scaldati con questo maligno astensionismo che ha valore esclusivamente politico, e in questo sono d’accordo con Berlusconi, perché la sostanza del voto, cioè se Caliendo aveva la fiducia del Parlamento a continuare il suo lavoro oppure no, non aveva la minima importanza.

mercoledì 4 agosto 2010

Ci eravamo tanto illusi

Pedemontana risponde alle critiche sorte dopo la pubblicazione del Piano Economico Finanziario dell’Autostrada Pedemontana Lombarda:

Un’altra critica è rivolta al sistema di tariffazione, che da parzialmente aperto nel progetto preliminare è diventato chiuso. A questo riguardo è necessario ancora una volta ricordare che l’autostrada era comunque a pedaggio e che l’unico svincolo libero era quello di Macherio. Con la nuova tariffazione chi usa l’autostrada esce dove gli serve e paga per quel che usa.

Fatemi capire. Ci avevano spiegato che con lo svincolo di Solbiate Olona, posizionato a un chilometro di distanza dal raccordo autostrada A8-Pedemontana, e lo svincolo di Mozzate, posto oltre la Valle Olona, tutto il traffico – anche quello locale – che al momento transita per la valle sarebbe stato dirottato su Pedemontana.

Ora scopriamo che lo svincolo di Mozzate sarà a pagamento.

domenica 1 agosto 2010

Dimenticanze

Prima, in questa intervista di Valleolona.com, si sono dimenticati dell'ultima domanda.
Poi, sull'ultimo numero de La Voce Solbiatese, ricapitolando le attività svolte e indicando progetti futuri e in corso, non è stato menzionato.

L'ultima domanda, allora, la facciamo noi: il Centro di Aggregazione Giovanile riaprirà a settembre, migliorato nell’arredo e nell’offerta formativa – come assicurato più volte, anche sulla stampa -, o non riaprirà?

La risposta l'abbiamo trovata sull'ultima edizione de La Settimana di Saronno:
Il sindaco Luigi Melis ha spiegato come la decisione di non ripristinare il servizio sia stata una scelta amministrativa: oltre ai dubbi sulla reale efficacia del progetto, anche un preciso cambio di strategia, con il potenziamento dei servizi alle scuole medie, dove saranno ripristinati la mensa e l'accompagnamento allo studio.
Siamo perciò andati a vedere la relazione sul piano di diritto allo studio 2010/2011:

Una filosofia che vede coinvolto in questo piano, per quanto riguarda l’assistenza agli alunni particolarmente svantaggiati, anche l’Assessorato alle Politiche Sociali e alla Famiglia con un grosso sforzo finanziario complessivo di oltre 270 mila € (362.960 /2009-313.423/2008).

Lo sforzo finanziario dell'Assessorato alle Politiche Sociali e alla Famiglia è quindi diminuito, di circa 90.000 euro. Proseguendo:

Le risorse totali destinate alle Moro ammontano quindi a € 99.371 (76.201/2009, 82.361 /2008).

Le risorse totali destinate alle scuole medie Moro sono aumentate, di circa 25.000 euro, dei quali 5.000 euro destinati ad

alunni che necessitino di assistenza scolastica si registra la presenza di n° 5/6 minori con relazione di Neuro Psichiatria Infantile di cui due alunni solbiatesi, ma frequentanti scuole fuori paese, prosegue il servizio del dopo scuola (dalle 14 alle 16) nei locali della scuola.
Inoltre gli alunni della scuola Moro sono aumentati, da 130 a 160. Sembrerebbe quindi un aumento "strutturale".

Infine con il ripristino della mensa e delle attività pomeridiane si ritorna a una situazione di base (minima, per un Paese - con la "P" maiuscola - europeo). Nulla di nuovo, insomma, se non che anni fa alle attività pomeridiane era affiancata l'attività del Centro Giovanile. Ecco perché sembra difficile parlare di potenziamento.

Per tutto questo, ovviamente, dobbiamo ringraziare anche la riforma Gelmini, e il governo Berlusconi.