lunedì 16 giugno 2014

Dall'Assemblea nazionale del Partito Democratico

La necessaria premessa al presente resoconto è: il sottoscritto è eletto in Assemblea nazionale del Partito Democratico nelle liste collegate alla candidatura di Giuseppe Civati, detto Pippo. La premessa è assolutamente necessaria perché le persone che fanno riferimento a tale candidatura sono rimaste praticamente le uniche a non partecipare alla gestione della maggioranza del Partito guidata da Matteo Renzi.

Detto questo, l'Assemblea nazionale che si è svolta sabato 14 giugno a Roma è stata molto partecipata: i delegati, provenienti da tutta Italia, non hanno voluto mancare a quello che è stato nei fatti il primo momento celebrativo dello straordinario risultato conseguito dal Partito Democratico alle elezioni europee. Risultato che è stato rimarcato anche nella scenografia, che sullo sfondo riportava a caratteri cubitali «40,8%».

Nella relazione introduttiva, durata quasi un'ora e mezza, il segretario e presidente del Consiglio Matteo Renzi ha toccato numerosi punti, dal nostro ruolo in Europa, al pacchetto di riforme appena licenziato dal Consiglio dei ministri, all'elezione del nuovo Presidente del Partito e dei due vicesegretari, alla cosiddetta «questione Mineo».

Spenderò due parole sulle ultime due questioni, perché sul resto mi sono trovato in accordo.

Partiamo dall'elezione del nuovo Presidente del Partito: l'elezione di Matteo Orfini è avvenuta a larga maggioranza, con la sola astensione di quelli lì di cui sopra, in totale disaccordo sul metodo adottato. Il Presidente di un partito è tenuto a svolgere un ruolo di garanzia, perciò è bene che sia condiviso da tutte le parti o che, perlomeno, il percorso che porta alla sua individuazione sia condiviso da tutte le parti. Così non è stato: l'unica minoranza del partito è stata coinvolta a mezzo di invio di SMS a Giuseppe Civati nella notte precedente l'Assemblea, tanto che molti delegati hanno saputo la notizia dai quotidiani di sabato. Il nome di Orfini, inoltre, è stato proposto da Matteo Renzi e immediatamente messo ai voti al termine della relazione introduttiva, senza prevedere e permettere alcun confronto. Un processo di questo tipo ha pochi elementi di democrazia, che al contrario sono fondamentali in un grande partito, votato dal 40% degli elettori e che deve porsi il problema di garantire la rappresentanza di un corpo elettorale eterogeneo e fluido.

Per quanto riguarda il caso Mineo, la mia opinione è che la riforma del Senato proposta da Renzi non sia una buona riforma e che, abbinata all'Italicum, porterà ad un allargamento del solco che esiste tra eletti ed elettori, una distanza che invece sarebbe il caso di colmare, in un momento storico in cui l'astensione aumenta costantemente e la delusione rispetto alla politica è sempre maggiore.

Detto questo, una riforma può essere buona o meno, con una riforma si può essere d'accordo o meno, ma quando non si tratta di una riforma qualsiasi ma di una riforma costituzionale bisogna fare il doppio di attenzione e creare quello che Walter Tocci nel suo intervento ha definito uno "spirito costituzionale": le riforme costituzionali non si portano avanti con maggioranze striminzite e neppure imponendo ricatti della forma "se non si fa la riforma allora cade il Governo". Le riforme costituzionali devono essere fatte lasciando larghi spazi di manovra al Parlamento, l'organo istituzionale che rappresenta il popolo e che in nome del popolo può modificare il patto costituzionale che tutto tiene assieme. Per questi motivi la scelta di rimuovere Mineo dalla Commissione nella quale è in discussione la riforma appare una mossa tattica che però rischia di portare a risultati strategici scarsi: se in Aula non ci sarà una maggioranza larga (e al Senato si corre il rischio che non ci sia neppure una maggioranza semplice) la riforma del bicameralismo perfetto si impantanerà lì, per chissà quanti anni. L'allargamento in Commissione verso altri modelli che prevedono l'elezione dei Senatori (ma contemporaneamente un loro taglio, un taglio dei deputati e la ridefinizione delle competenze) avrebbe invece potuto portare a un voto in Aula più sereno.

Purtroppo Matteo Renzi non ha trattato questi argomenti, ma si è concentrato sulla vergognosa frase pronunciata da Mineo la sera precedente e sulla presunta volontà di Mineo stesso (e degli altri 13 senatori autosospesi) di voler bloccare il treno delle riforme. Tecnicamente si tratta del cosiddetto argomento dell'uomo di paglia, uno strumento retorico che consiste nel modificare l'argomento del proprio avversario. Ad esempio, come dice Luca Sofri:
Esempio: io dico che bisogna abolire la caccia e tu mi rispondi che sono un pazzo perché se i bambini non mangiano mai carne non crescono sani. Io non ho mai sostenuto che i bambini non debbano mangiare la carne, ma tu mi hai attribuito questa opinione e io ora dovrò affannarmi a dire che non è vero, ripartendo da un passo indietro.
Dire che i senatori autosospesi vogliono fermare la riforma del bicameralismo perfetto è un argomento dell'uomo di paglia: i senatori sospesi hanno una proposta di riforma ben articolata e che ha raccolto approvazione al di fuori della maggioranza governativa e che quindi avrebbe maggiori speranze di passare anche in Aula.

Tutte queste cose le ha dette molto meglio di me il senatore Walter Tocci, che vi invito ad ascoltare:

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