mercoledì 27 agosto 2008

Il nostro posto

di Concita De Gregorio

Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad
essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere
il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare,
chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e
condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di
scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa
loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri
per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all'estero a
studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo
che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che
tu sia il Rettore dell'Università o il bidello della Facoltà fa lo
stesso, la cura è dovuta e l'assistenza identica per tutti. Sono stata
una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che
aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un
istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata
diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana,
nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se
avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.

Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra
sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe
ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra
Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all'articolo 2,
proprio all'inizio: l'esistenza (e il rispetto, e il valore, e
l'amore) del prossimo. Il "dovere inderogabile di solidarietà" che non
è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non
erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio
futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo –
investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato
facile, relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il
futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.

Chi può li manda altrove, li finanzia per l'espatrio, insegna loro a
"farsi furbi". Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più
grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere,
la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent'anni.
Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è
che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti
ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta
avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un
miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta
la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al
soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella
presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da
solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa
loro, crepino.

Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel
comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza
politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo "berlusconismo" ne è
stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che
ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro
comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha
fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto
negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all'accettazione di
questa vergogna come fosse "normale", anzi auspicabile: un modello
vincente. È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in
quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi
trovano un ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è
andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito
Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da
incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che
ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata
l'ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non
ne ha più. Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia:
coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la
musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che "tanto, ormai"
è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci
anni, regalargli per Natale la playstation non è l'alternativa a una
speranza. "Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra
intelligenza", diceva l'uomo che ha fondato questo giornale. Leggete,
pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il
destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in
mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità
di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo
dirci di averci provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima
di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande
lavoro collettivo. L'Unità è un pezzo della storia di questo Paese in
cui tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro
forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone.
Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro –
il senso di un impegno e di un'impresa. Quando immagino quale potrebbe
essere il prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in
sintonia con l'avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti
noi, a tutti voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la
scuola, l'università, la ricerca che genera sapere, l'impresa che
genera lavoro. Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne. La
cura dell'ambiente e del mondo in cui viviamo, il modo in cui
decidiamo di procurarci l'acqua e la luce nelle nostre case, le
politiche capaci di farlo, il governo del territorio, le città e i
paesi, lo sguardo oltreconfine sull'Europa e sul mondo, la solidarietà
che vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo, a chi è
arrivato da noi adesso e viene da un mondo più misero e peggiore,
solidarietà fra generazioni, fra genti, fra uguali ma diversi. La
garanzia della salute, del reddito, della prospettiva di una vita
migliore. Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e che
la cronaca della nostra vita sia politica. Credo che abbiamo avuto a
sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a raccontare, meglio
e più onestamente possibile, la scena. Credo che la sinistra, tutta la
sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di ritrovarsi sulle
cose, di trovare e di dare un senso al suo progetto. Il senso, ecco.
Ritrovare il senso di una direzione comune fondata su principi
condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la
condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita, sulla
realtà. C'è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo,
metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non
voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo
farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non
solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo.
Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle
vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale
diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno
di noi. L'identità, è questo il tema. L'identità del giornale sarà
nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di
approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa
sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano
dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo
vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e
per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un
normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto
quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti
quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che
vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro
impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in
solitudine. C'è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno. Non ci si può
tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo
è il nostro posto.

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