giovedì 1 luglio 2010

Digital divide

di Ivan Vaghi

Si può tradurre con “discriminazione digitale”, e sarà la nuova frontiera di intervento sociale dei prossimi decenni. In pratica il mondo si dividerà in chi ha accesso alla rete e chi non ce l’ha, e non è una questione da poco, perché la prossima sarà la società dell’informazione. Il mondo è già passato dalla società agricola a quella industriale, la società digitale sarà solo il prossimo inevitabile passo. Si calcola infatti che alla fine del XXI secolo solo il 5% dei lavoratori attivi verrà impiegato per far funzionare la produzione, tutti gli altri avranno compiti di ricerca, sviluppo, produzione e gestione delle informazioni, e il luogo deputato a farlo è la rete. La conclusione facile è che chi avrà il controllo della rete avrà anche il controllo dell’economia, e che chi sarà escluso dalla rete sarà anche escluso dallo sviluppo sociale. A sostenerlo è il sociologo Manuel Castells in un libro, “L’età dell’informazione”, che è stato definito la prima vera innovazione nel campo dell’analisi della società dai tempi di Marx. Quello di cui Castells ha paura è che la mancata gestione a livello politico dell’economia digitale possa lasciare spazio a forme di sfruttamento e appunto di esclusione. Quello che abbiamo sperimentato fino adesso, cioè la concentrazione del capitale nelle mani di pochi e la conseguente formazione di una società fortemente sbilanciata, potrebbe essere anche la condizione futura. La differenza è che i nuovi “padroni” non saranno i proprietari dei mezzi di produzione, ma i proprietari dei servizi che li fanno funzionare, senza i quali la produzione cesserebbe. Lo sviluppo tecnologico che permetterà tra non molto di scambiare in rete decine di milioni di informazioni al secondo consentirà di poter reperire in rete i servizi necessari al funzionamento delle attività produttive di ogni tipo, sollevando aziende, professionisti, enti pubblici dalla necessità di dotarsi dei programmi necessari, che necessitano di continui e costosi aggiornamenti. Il servizio sarà affittato a costi contenuti con il conseguente aumento dei profitti. Il controllo però passerà al fornitore del servizio e quindi si instaurerà un elemento critico che la nuova società dell’informazione dovrà tenere in considerazione.

La politica deve pertanto affrontare questo problema, che ha vari aspetti, tutti concatenati: “lo sviluppo culturale ed educativo influenza lo sviluppo tecnologico, il quale influenza lo sviluppo economico, il quale influenza lo sviluppo sociale, il quale a sua volta stimola lo sviluppo culturale ed educativo. Si può trattare di un circolo virtuoso di sviluppo così come di una spirale negativa di sottosviluppo”. Già, perché poi bisogna vedere chi è che controlla e come lo fa. Sempre Castells afferma che: “le banche centrali non sono in grado di esercitare un vero controllo sui flussi globali di capitale nei mercati finanziari. E questi mercati non sono sempre governati da regole di natura economica, ma da turbolenze dell’informazione di diversa origine. I governi nazionali, nel tentativo di conservare un qualche controllo sui flussi globali di capitale e di informazioni, si coalizzano per creare o aggiornare istituzioni sovranazionali alle quali cedono gran parte della propria sovranità. In tal modo riescono a sopravvivere, ma sotto forma di un nuovo tipo di Stato che connette istituzioni sovranazionali, Stati nazionali, governi regionali e locali e perfino organizzazioni non governative in una rete di interazioni e di processi decisionali comuni, e che sta diventando il modello politico prevalente dell’era dell’informazione: lo Stato rete.”

Ma veniamo a noi, quali sono i rischi che bisogna evitare? Per prima cosa proprio il digital divide “se chi rappresenta una risorsa valida può essere facilmente connesso – e non appena smette di essere utile può essere facilmente disconnesso – allora il sistema di produzione globale è popolato allo stesso tempo da individui e gruppi estremamente preziosi e produttivi e da persone che non sono o non sono più considerati preziosi, anche se fisicamente non sono scomparsi dalla scena”. Il problema è reale perché “in quasi tutti i paesi il deficit di istruzione e la mancanza di un’infrastruttura informatica fanno sì che l’intera economia dipenda dai risultati dei pochi settori globalizzati, sempre più vulnerabili alle tempeste dei flussi finanziari globali”, che come abbiamo visto ad oggi non sono governabili dalle banche centrali. Si corre il rischio quindi di creare una imponente sottopopolazione di sfruttati e di esclusi, un vero e proprio quarto mondo trasversale alla collocazione geografica, che risiede in tutti i paesi e in tutte le città del mondo, più o meno grande a seconda del grado di sviluppo tecnologico intrinseco. A questo punto si può decidere se accettare la situazione, e quindi limitare il quarto mondo attraverso imponenti investimenti nel settore dell’information technology, oppure dare il via ad una nuova era di intervento politico che non può che essere globalizzato e sovranazionale. E che inevitabilmente si scontrerà con gli enormi interessi di quei pochi “gestori” dell’economia globale digitalizzata, che oltre a non aver più bisogno degli investimenti di capitali tipici dell’era industriale avrà interesse a limitare i controlli sull’utilizzo della forza lavoro per poter moltiplicare a dismisura i profitti. Ovvio che da un punto di vista “sinistrorso” questa situazione è senz’altro da evitare, ma lo è anche se la vediamo da “destra”, perché “se la competizione tra imprese e nazioni passa attraverso il peggioramento delle condizioni di lavoro, e i frutti della produttività restano concentrati in poche mani, la maggior parte dei lavoratori non avrà più incentivi a investire il proprio capitale intellettuale in un’impresa collettiva, la curva dell’istruzione rallenterà, e si restringeranno sia il potere d’acquisto che la spinta all’innovazione”. In poche parole tanto più sarà grande il quarto mondo tanto meno sarà garantito lo sviluppo sociale e le possibilità di affermazione individuale, oltre che collettiva.

Se compito della politica è quindi analizzare la società e pensare ai problemi ancora prima che si manifestino, credo che sia necessario da parte dei nostri politici cominciare a farlo. E se non possiamo verosimilmente contare sulla lungimiranza della nostra compagine di governo, forse possiamo contare su quella dell’opposizione: perché non affrontare l’argomento del controllo sovranazionale delle centrali economiche dell’era digitale e ragionare sulle ricadute sociali che ci troveremo ad affrontare? Si potrebbe cominciare da una raccolta di dati e dal monitoraggio della situazione fintanto che siamo ancora in “incubazione”. D’altra parte se in futuro il potere lo avrà chi possiede le informazioni sarebbe il caso di non farsi lasciare indietro da subito, e cominciare a produrre noi stessi le informazioni necessarie all’analisi sociale del prossimo futuro. Certo, non si ricaverà un voto in più che è uno, perché l’analisi della società in cui vivranno i nostri figli non interessa per nulla i loro padri, ma la politica deve anche essere assunzione di responsabilità. Non necessariamente corrisposta.

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